«Le abbiamo già sentite le parole sdegno, sconcerto, rabbia, dolore, solidarietà, comitati per l’ordine e la sicurezza, giustizia, Canosa sicura, ricorrono ogni volta che si consuma un atto criminale o un gesto che ci scuote dal torpore e dalla indifferenza, che turba, solo per qualche giorno, le nostre coscienze perché sconvolge la illusione di essere individualmente al sicuro. In fin dei conti tocca sempre agli altri: e invece, lentamente, senza accorgercene stiamo facendo la fine della rana bollita, incapaci di una reazione adeguata come individui, come famiglie, come comunità, come scuola, come istituzioni». A scriverlo in una nota è l’esponente di Canosa che si Ama Enzo Princigalli.
«E siccome non potrei esprimermi meglio, ripubblico – spiega Princigalli – la riflessione del dott. Messina all’indomani dell’omicidio a Barletta del povero giovane Lasala seguito da una serie di episodi criminosi a Corato, ad Andria, a Bisceglie e a Canosa. E poco importa se l’autore dell’ultimo atto di una serie interminabile sia solo un incosciente disadattato o un criminale. Quella del dott. Messina è la replica alla corale richiesta di giustizia invocata come per esorcizzare le responsabilità di ciascuno di noi».
«”È la città che, per prima, dovrebbe riflettere e ritrovarsi intorno a ciò che ritiene sia giusto e, quindi, anche buono. Essere giusti significa saper selezionare e scegliere.
Significa guardare, non per sé, ma per tutti, un determinato orizzonte piuttosto che un altro. Significa ponderare emozione e ragione, anche in silenzio, prima di decidere.
Significa cercare gli strumenti culturali per stabilire quali siano le priorità affinché un luogo, una città, siano attraenti, produttivi e sicuri. Significa capire che la parola sicurezza non riguarda solo l’ordine pubblico, ma ne richiama altre come rispetto, coerenza, etica sociale, solidarietà, aiuto concreto e immediato a chi ha subìto o sta subendo una violenza o anche solo un difetto di tutela. Da tempo si cita la Costituzione in modo banale o per dare spazio a narcisismi, bisognerebbe ricordare che tra le parole più impegnative che vi si leggono ci sono concorre e compito. Sono parole che hanno significati densi perché implicano un dover costruire singolo e collettivo, rendono necessaria in tutti i cittadini una prospettiva, un agire pensato e condiviso. La giustizia e il suo corso, così tanto preteso da altri non è qualcosa di esterno, cioè l’ennesima astrazione sulla quale misurare il grado di ipocrisia raggiunto da una comunità che, tragicamente, cerca di nascondere la verità a se stessa.
Né bastano i riti emotivi o gli auspici di stile per sopperire alla mancanza di un’analisi profonda su come sono mutati negli ultimi anni la vivibilità di un territorio, la qualità del tempo offerta e ricercata dai cittadini, il desiderio di rimanere o di tornarci.
Tra parole scritte da molti adolescenti a commento dei fatti tragici degli ultimi giorni le più usate sono rabbia, libertà, felicità, queste ultime due senza ulteriori definizioni e intese come necessità esclusivamente personali e a sottolinearne la mancanza.
Quasi nessuno di essi ha indicato la parola responsabilità, cioè l’abitudine, oltre che la capacità, di fare/farsi domande e di cercare risposte nel contesto in cui si vive.
Eppure una comunità, non solo le forze dell’ordine e i magistrati, dovrebbe sentire l’urgenza diffusa che libertà e felicità siano termini da rapportare a giustizia, quale ricerca del punto di equilibrio, consapevolezza del limite. Sono temi che diventano parte della discussione pubblica quasi sempre in stretta connessione con i fatti di sangue.
Sulla spinta dell’emotività, si possono raggiungere anche punte alte di reazione civile.
L’emozione può essere occasione e motore potente, certo ma da sola non basta.
Una comunità deve riconoscersi nel tempo della razionalità, e non solo in quello dei sentimenti poichè aver cognizione del dolore impone costanza e competenza, determinazione e pazienza. Ma non solo: le esperienze tragiche che investono una comunità, oltre che portare all’affetto e alla solidarietà verso chi ha perso una persona cara e buona, dovrebbero portare allo scavo della coscienza da parte di ciascuno.
Scavare nella coscienza significa, soprattutto, conoscere e poi praticare la misura nel vivere personale e collettivo e lo si fa insegnando, imparando e, quindi, sapendo collettivamente che fuori da quella misura, da quella giustizia a cui si concorre, c’è solo la profondità dell’abisso, di ciò che pretendiamo di essere, ma non siamo. Forse non si trova più la giusta misura perché non siamo più abituati a vedere quell’abisso, non ne si coglie più la profondità e il pericolo. E cosi si rischia di esserne, tutti, inesorabilmente inghiottiti. A parole non credo si possa aggiungere altro, il resto riguarda ciò che ognuno di noi può e deve fare, prima che sia troppo tardi».